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Quella sera tornavamo da Genova. Tornavamo da un viaggio in cui ogni mezz’ora io dovevo nascondere la faccia tra le mani per poter respirare, cosa che mi sembrava impossibile fare. E ogni mezz’ora tu, guidando, te ne accorgevi e smettevi di parlare per chiedermi se andava tutto bene. Per appoggiarmi la mano sul braccio nel modo che entrambi sopportiamo (perchè ad entrambi in ogni altro modo dà fastidio). Anche se sapevi che andava tutto bene, che era solo un po’ d’ansia che andava avanti da un mese e a cui ormai sono abituata. E tu continuavi a chiedermelo lo stesso, cambiando tono di voce. Come pensando che sentendo quelle parole potesse passarmi, che attraverso quel contatto fisico potesse scomparire. E scompariva. Quella sera, al ritorno, c’era uno dei tuoi migliori amici seduto assieme alla morosa nei sedili dietro. Eppure parlavi con me. Direttamente a me, di un argomento che comunque poteva essere di interesse comune, tu ne parlavi con me.
Com’è che mi sentivo bene per una cosa del genere? Mi sentivo a mio agio, in macchina, con due dei ragazzi più carismatici che esistano, quelli "da seguire" nei discorsi, quelli da ascoltare, perchè qualcosa da dire di interessante ce l’hanno sempre quando si esce tutti assieme. Quel genere di persone in cui gli amici catalogano spesso anche me (che si sa, io ho un blog, sono abituata a fare lunghi monologhi e ad incentrare l’attenzione).
Mi sentivo bene per essere la tua ascoltatrice diretta, sentivo quel brivido lungo il collo che c’è sempre nel sentire qualcosa che ancora non so. Mi raccontavi di quel castello fatto di pietra da un uomo, da solo, per una donna, per amore. E io ti ascoltavo così come si guardano le stelle. Una delle poche persone che conosco che ha qualcosa di interessante da insegnare e che ama parlare allo stesso tempo, connubio perfetto.
(ci ho messo 1 minuto a ricordarmi che o e che a mettere in catalogano … sono stanca, direi che vado a casa ora eh?)
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