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dell’illusione dei giovani d’oggi

Io non lo so se è sempre così ogni generazione o no. Perché molte delle cose per cui la gente si lamenta di questa generazione, di questi tempi, i miei che vedono l’ubriacatura degli attuali teenager come un orrendo abominio che capita solo al giorno d’oggi, per dire, sono tutte puttanate; sono tutte cose che ci sono sempre state. Le droghe, l’alcool, la svogliatezza, il disinteressamento alla politica, molte, moltissime cose. Non è un fatto generazionale. E’ un fatto adolescenziale. Poi ogni tot anni, i giovani hanno i loro pro e i loro contro, dovuti ai tempi etc. ma nessuna differenza così abissale (non dimenticando mai lo slittamento di range in cui sui parla di giovani). Questo è quello che penso.
Adesso mi chiedo: ma è sempre stato che i giovani (i trentenni di oggi, i ventenni di ieri) vivono in un modo di cristallo tappezzato di illusioni per non farne vedere la trasparenza? Ho a che fare ogni giorno con questi mondi che non esistono. L’amore, il lavoro, la ricchezza, la fama. Mia mamma ha studiato da sarta; non si parlava allora di laurea, ma comunque ha fatto i suoi studi per l’epoca in cui viveva. E poi ha lavorato in fabbrica. E non è una persona umile, ma aveva bisogno di lavorare, molto probabilmente è stata pure costretta. Poi ha inseguito i suoi sogni, ha aperto il suo atelier, si è coperta di debiti, ha visto arroganza nelle clienti che pretendeva i prezzi da grandi magazzini e molto molto disprezzo da tutti. Ora è in pensione, e fa a tempo perso orli e asole che ha scoperto fruttare molto più, in soldi ed in altro, di un abito da sposa per spose al quinto mese che vogliono l’abito bianco ma che non si veda che sono incinte. E’ stata felice così, cambierebbe molte cose, ma è andata come è andata e si è sentita molto realizzata: ha fatto quel che voleva, ha faticato quanto ha dovuto, si è abbassata a moltissimi compromessi. Probabilmente, come tutti, sognava di fare la stilista, di essere una Mariella Burani, ma sapeva che era quanto più vicino all’impossibile e si è accontentata del molto che ha avuto. Perché la gente non è in grado di accontentarsi, oggi? Perché la gente non accetta il compromesso? Vedo persone che si comprano ville di cui tengono intere camere chiuse – perché sono troppo grandi – e poi si lamentano per il mutuo perché con lo stipendio medio alto da dipendenti che hanno non ce la fanno. Però la villa la volevano. Perché così arrivano a casa e l’amica invitata a cena che fa i complimenti per la bellissima casa li fa sentire, per un attimo, fuori dalla normalità del lavoro normale che hanno. Ma è così grave essere dei dipendenti, fare un lavoro che piace, prendere solo 1400€ al mese? Io non mi vergogno di vivere in appartamento. Non mi vergogno di prenotare le camere negli alberghi meno costosi che trovo che rientrino nel concetto di minimo sindacale di ospitalità. Non mi vergogno di fare un lavoro che faccio per pagarmi da mangiare, che se mollassi tutto e tornassi dai miei e mi facessi mantenere potrei, certo, star lì a inventarmi un mestiere il cui unico scopo è farmi diventare ricca con il minimo sforzo, passare anni e anni ad avere inutili "brillanti idee per diventare ricca". Ma di questo me ne vergognerei.
Il lavoro è lavoro. Ci vuole botta di culo, background familiare, fortune di famiglia per diventare ricchi da un giorno all’altro. Da un anno all’altro. Non può essere, davvero, uno scopo di vita. Lo scopo è lavorare per mangiare. Lavorare per togliersi qualche sfizio. Migliorarsi nel limite del possibile. E’ come l’amore. C’è sempre un compromesso a cui scendere, non siamo tutti cenerentole, non siamo tutti bill gates.

dei desideri e dei lavoretti

Da grande, abbandonata l’idea di fare il pilota aeronautico, avrei voluto fare la pittrice. Passare il weekend a dipingere infissi delle finestre è da considerarsi un traguardo?

sognando di londra e dell’acqua azzurra

Tornavi da Londra. Qualcuno mi diceva che ci pensavi ancora, a me; nonostante gli anni. Entro ed esco dal sogno lucido, so che chi me lo ha detto era in sogno e so che non è vero. Ci vediamo a casa tua. Tu non sei più tu, sei orribile e sfigurato, ma il ricordo è più forte. Ci sono fienili e corse dalle finestre. Qualcuno chiede se hai un acquario.
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C’è la casa – due volte più grande – allagata da quelli del piano di sopra. Io e te andiamo su, ma da loro è tutto a posto. Torniamo giù, e l’acqua di un azzurro inquietante traspira da soffitto e muri. Arriva mia madre che non ce la faceva più in pellegrinaggio e finisce prima, ma non vuole tornare a casa per non doverlo ammettere. In macchina noi tre, lei scende per il paese, scendo anche io, e non riusciamo a ritrovarci – un po’ come al supermercato.