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il mio “nuovo” lavoro

Ieri sera, qualche ora prima di svuotare lo stomaco dagli ultimi tre pasti e qualche ora dopo una crisi depressiva da pomeriggio domenicale troppo corto per tutto, mi sono ritrovata ad una festa della birra, di quelle che ho smesso di frequentare da quasi dieci anni. Invece di ballare con l’amichetta del cuore nonché compagna di sbandate al suono della discoteca mobile che c’era sempre nelle feste tra i nostri monti, qua stavo seduta ad una tavolata a mangiare (inutilmente, ahimè, ma non lo sapevo) spiedini, bere birra ed ascoltare con una certa allegria e un bel sorriso un gruppo blues. E mentre osservavo il cantante, un simpatico ometto quasi calvo e frizzante come una Schweppes sgomitavo *lui* facendogli notare quanto fosse simile al mio ex capo: nell’aspetto come nei movimenti. Mi ha preso un po’ una fitta di nostalgia. E mi è venuta in mente una delle cose che mi mancano qui. Il lavoro mi piace, l’ambiente lavorativo di per sé è molto bello, ovvio per una che fa il mio lavoro e si trova circondata da gente che fa circa il suo stesso lavoro invece di essere l’unica tuttofare informatica; però mi manca quella figura di riferimento che ho avuto la fortuna di avere nei due lavori precedenti: una persona per cui nutrire ammirazione, qualcosa di ben diverso del rispetto lavorativo dovuto alla superiorità di ruolo. Una persona geniale nel suo campo, come era uno dei miei primi tre capi, eclettica e sempre pronta ad insegnare qualcosa come il mio ex capo ed il commerciale. Mi mancano le ore passate a osservare ed imparare. Qua discorsi del genere non si fanno, non si filosofeggia, non si parla di viaggi lontani né di architettura della Mole Antonelliana né di esoterismo o religione.

pensando a casa

Come se avessi distolto lo sguardo, per quasi una settimana mi sono immersa in tutto quello che mi capitava sottomano. Scelta dei mobili, svuotamento degli scatoloni, ricostruzione di una traballante relazione, tentativo di sopportare un pomeriggio sociale fuori casa, lavoro, telefonate ad amici e parenti. Ma ieri sera, quando mi ha chiamata sul balcone, la nostalgia di casa mi ha colpita allo stomaco come un mattone di trecento chili con la forma di montagne che si stagliavano, piccolissime e lontanissime, sullo sfondo del sole al tramonto. Vivere in un posto aperto, dove ovunque si guarda c’è solo orizzonte, una sconfinata e pianeggiante linea dritta, dà un senso di desolatezza incredibile. E’ sconsolante non poter cercare, spostandosi tra le case, i palazzi, uno squarcio di panorama attraverso cui ammirare i 2.335 metri di maestosità di una montagna che inizia con alberi colorati e fitti da sembrare cotone e man mano che si alza diventa cupa, scura della terra e delle rocce e poi brillante del bianco della neve, così smagliante nelle giornate di sole, oppure ricoperta del viola d’erica nei pomeriggi primaverili. Dormire con la testa rivolta ad ovest, attorniata da montagne, fa sentire in un qualche modo protetti, come se si vivesse dentro un’enorme alcova sicura.