è solo un blog

i'm a fountain of blood in the shape of a girl

delle secchiate

In queste settimane.

Ho smesso di prendere le medicine una settimana prima del dovuto perché mi sembrava mi facessero solo stare peggio. Lentamente, sembra stia migliorando. Molto lentamente.

Per cercare di aiutare questa eterna forse guarigione, cerco di bere meno caffè possibile, fumando di conseguenza il doppio, e comunque mangiando a cazzo di cane perché cucinare è impossibile.

Perché nelle ultime due settimane ha fatto caldo, molto caldo. Impossibile uscire di giorno, in casa 30° di afa tenendo le persiane chiuse. Ho traslocato la scrivania nella grotta-camera, in attesa che ci montino la ventola anche in sala, per poter almeno provare a fare finta di lavorare.

Sempre in queste settimane, ho gestito la pratica per un camion che mi è entrato nella macchina mentre se ne stava bella parcheggiata sotto casa. Attendo che sistemino per poter poi riparare l’aria condizionata, anche se è un costo esorbitante per una roba tanto ridicola, che però nonostante le mie più pure intenzioni si rivela necessaria. Anche perché l’altra macchina, quella di e., quella con l’aria condizionata funzionante, è ferma in cortile perché lo scorso weekend, mentre ce ne partivamo per il volo per Budapest, a un km da casa ci hanno fermati per revisione scaduta sei mesi fa. Però oggi l’abbiamo finalmente ritirata revisionata.

Siamo passati a prenderla dopo una mattinata passata a buttare secchi d’acqua. Tu lo sai quali muscoli impieghi per: chinarti per riempire il secchio nel tombino che è stracolmo e sta per fare scivolare una cascata d’acqua nell’androne seminterrato del palazzo, alzarlo, alzarti, camminare con i piedi nelle infradito immerse nell’acqua che scivolando, ma scalzo è peggio perché c’è melma e foglie dappertutto, fino alla rete, alzare il secchio all’altezza della tua spalla e sbattere la secchiata al di là della rete, verso quel tombino turbinoso e fantastico a cui domani dedicherò una statua per lo splendido lavoro anche nelle condizioni peggiori, tornare al tombino, continuare. Per un’ora e mezza.

Il dubbio che sarebbe finita così mi era venuto già da un po’. Usciamo di casa mentre inizia a piovere, ci infradiciamo in un metro a piedi, già comincia male; andiamo in agenzia, vediamo la contro offerta dell’offerta che abbiamo fatto due giorni fa, è meno del limite che ci eravamo fissati, è fatta! “Posso pensarci?”, se ne esce e. Ma a cosa devi pensare? E fuori piove, un bell’acquazzone estivo di quelli potenti. Ah, beh, devi pensare a quel piccolo indebitamento per decenni che ti stai accollando per far contenta me. Guardo fuori, la porta è aperta. Piove. Parliamo ancora con quest’agente che si lecca i baffi. Piove. Usciamo, corro a casa, corro a 30 allora perché le strade sono un fiume e sta piovendo davvero fortissimo. Parcheggio, scendo, e l’acqua in strada è appena sotto le ginocchia.

Me lo sentivo che sarebbe finita a secchiate.

delle somme e di come trasformarle in sottrazioni

Com’era? Le tasse, la morte, e poi, a cos’è che non si scampa? Dall’avanzare dell’età, sicuramente, nessuno di noi è salvo. Quest’anno sono quaranta, più della metà della lunghezza di vita ideale per me, probabilmente meno della metà di quello che avanza. E allora è da qualche tempo che provo a fare due conti, qualche somma, colpa anche di una trama che mi è capitata sotto mano: “Alla vigilia dei suoi trent’anni, Julie deve riconoscere con riluttanza di non avere ancora combinato niente nella vita e che ciò non sembra destinato a cambiare in tempi brevi”. Oh, cazzo, e io che ne ho dieci di più, cos’ho “combinato”? L’unica cosa, la più grande e importante cosa che serviva, l’ho raggiunta: la consapevolezza che non c’è proprio niente da combinare. Non c’è un premio, non c’è uno scopo, non c’è un traguardo. La cosa migliore che ho fatto è stato imparare a rendermi lievi le giornate, le ore, i singoli momenti, e l’ho raggiunto anche con il grande impegno che ho profuso nel costruirmi una vita senza alcuna responsabilità, senza impegni da rispettare, senza dover rendere conto a nessuno, nemmeno a me. Può sembrare semplice, sicuramente sembra la scappatoia semplice a tutti quelli che ci circondano e che vedo ogni giorno curvarsi sotto il peso delle loro vite inverosimilmente complicate e che necessitano di costante, piena, faticosa attenzione, ma la verità è che è faticoso e difficile. Richiede totale abnegazione alla causa. Svincolarsi da tutti quelli che tentano di mettere lacci e limiti e paletti, che siano fidanzati che si vogliono costruire il loro recinto sicuro o datori di lavoro che vogliono poter affidare il loro intero piccolo impero su qualcuno, pur pagandolo per un terzo della sua giornata. Resistere, testa contro testa, a quel percorso su cui tentano genitori, insegnanti, amici più giovani, amici più vecchi, a infilarti continuamente. Prima credendoci, poi solo per avere dei compagni di cella. Non potrai sempre fare così, mi dicevano. Prima o poi.

Ma mi sa che, prima o poi, vedrete voi.

dell’algarve

La natura in questo posto è violentemente bella. Non so dire se sia per la casa in cui siamo, immersa in campagna e circondata da un terreno completamente incolto, dove vivono conigli (coelhos), cicogne, rondini e tantissimi altri uccelli, insetti, formiche, il cui lavoro frenetico ci divertiamo a osservare durante la giornata. Mancano quasi completamente gli insetti fastidiosi: poche mosche, un paio di zanzare, nessuno scarafaggio, nessuna falena. Insomma, pare quasi finto.

Siamo sempre circondati da piante e fiori, bouganville, oleandri, ulivi, limoni, aloe, piante più esotiche ed alcune mai viste prima, distese di fiori viola nelle paludi fino alla spiaggia, alberi dai fiori lilla in ogni via, vicolo o piazza.

A coprire gli odori della natura, quando passeggiamo nei vicoli di questi paesini che sembrano usciti da una guida Lonely Planet illustrata da una AI, illuminati, infiorati, abbelliti e decorati come se Pinterest fosse il mondo reale e non lo sapevamo, a sovrastare il profumo di erba selvatica, gigli, liquirizia, ci pensano gli odori del cibo: carne arrostita, aglio, odori familiari e allo stesso tempo speziati come un ricordo lontano della Compagnia delle Indie. Ristorantini adorabili apparecchiati come se Borghese stesse per girare l’angolo con la sua auto nera per ribaltare il risultato, purtroppo in questa stagione frequentati per lo più da giovani e anziani inglesi, che in questo momento sembrano essere almeno la metà della popolazione. Eppure, in qualche modo, sembra ci sia una strana magia che il Portogallo, o l’Algarve stesso, sarà per il ritmo lento, ma non può essere solo quello, allora forse per il portoghese, per i portoghesi che parlano portoghese, che quasi sussurrano una lingua tutta scivolante e musicale, che questa magia fa sì che anche gli ospiti tra i più chiassosi e fastidiosi del pianeta, qua siano stranamente sottotono, molto integrati con l’ambiente circostante.

C’è molta lentezza, come in Spagna. Anche se per molti questo potrebbe sembrare un punto a favore, per me è qualcosa di complicato con cui relazionarmi. Quasi un’imposizione a cui devo adeguarmi, riluttante. Questo è, al momento, l’unico difetto che ho trovato.

Avevo grandi aspettative per questa terra, affascinata da sempre dalla lingua e da antiche storie di epoca coloniale, dalle piastrelline blu, e avendo poi visto fotografie di spiagge bellissime, grotte, scogliere mozzafiato. Per questa piccola parte di visita, le aspettative sono state superate ampiamente. Credevo bello, ma davvero non così tanto. Ora desidero ardentemente finire di visitare il resto, Lisbona e il nord, e rispondere alla domanda: l’azul, il colore nazionale, lo è per il colore del cielo o per le piastrelle, e se per le piastrelle, lo sono per il colore del cielo?