il mio giovedì

Arriviamo, saluti, presentazioni, sguardi, sorrisi, « uniamo i tavoli? », i maschi prendono due tavoli, guardo il numero, è il 13. Però sotto sbiadito c’è un 14, ma allora, bastardi, perché non lasciare 14? Sto per sedermi, sento pungere nell’incavo tra pollice e indice della mano destra, penso a una zanzara, poi penso che più probabilmente era un un ago, magari era attaccato alla borsa, che ne so. Mi siedo e mi accorgo che il male non passa, non diminuisce, non pulsa, è li, stabile quanto un blocco di granito in mezzo a un prato. Guardo meglio e vedo la mano gonfia, guardo meglio e la puttana mi sta ancora camminando sulla manica della maglia, con i suoi due centimetri di corpo giallo e nero, facendosi beffe della mia vita che al contrario della sua non varia molto di diametro dal resto del corpo; poi torno a casa, mangio, mi metto a letto. Sembra perfino di sentire ancora il rumore del vento di oggi pomeriggio; sicuramente le mie gambe lo stanno sentendo. Mi rigiro per un’oretta poi decido che almeno stanotte vorrei dormire qualche ora, prendo il sonnifero, mentre maledico il ginocchio che sembra un vecchio cardine arrugginito. All’una e mezza mi chiama il mio capo per chiedermi se va tutto bene. Cristo.
Eccomi.

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